Il Natale detto il "Ceppo"
Un altro Natale è passato. Quelli dietro di me sono ormai un battaglione, quanto a quelli davanti è meglio cambiare discorso! In una delle notti delle Feste, non riuscendo a prendere sonno, mi misi a riandare con la mente ai Natali trascorsi, cercando di ricordarne momenti, emozioni, atmosfera.
Assai vivo nella memoria rividi il "Ceppo" di quando ero bambino. "Ceppo" abitualmente impersonato dalla cara Leonetta, debitamente intabarrata e che faceva la voce del ruolo. Lo risentii avvicinarsi, ciabattando e brontolando, nel lungo corridoio che portava al salottino dove, insieme alla famiglia, io l'attendevo con ansia e paura, mezzo nascosto tra le gambe protettive del mio nonno.
Non c'era l'albero di Natale allora. (Non era infatti ancora arrivata da noi la moda, poi importata dai paesi anglosassoni, di vestire un povero abetino con palline e palline colorate, come pure nemmeno quella -sempre anglosassone- delle carte e biglietti di auguri e così i postini non giravano, come oggi, ingobbiti da borsate di "Buon Natale e Felice Anno Nuovo" scritti in tutte le lingue. Anche in mongolo, sorvolando sul fatto che trovare uno in Mongolia che sappia cosa vuol dire "Natale" è più difficile che azzeccare 6 al Superenalotto!) Non c'era dunque l'albero. C'era, invece, su un tavolino in un angolo della stanza, l'immancabile Presepio, "la Capannuccia", con il bambinello rosa a braccia aperte, i pastori con l'agnello sulle spalle, i Re Magi in fondo, in attesa dello sprint finale e la carta argentata a fungere da ruscello.
Finalmente il Ceppo si affacciava sulla porta e per me era come se il mondo si fermasse in attesa di un evento che si ripeteva ma rimaneva sempre nuovo e misterioso.
Le gambe di nonno si allargavano affinché mi ci rintuzzassi meglio. Il Ceppo si fermava davanti a me, posava il suo sacco sul pavimento e cominciava il martirio. "Sei stato buono?" domandava con voce burbera e minaccioso. Rattrappito, ammutolito, io non riuscivo nemmeno a respirare; figuriamoci a parlare! Ma la famiglia interveniva e, in coro, assicurava "Si, si", "La poesia la sai?" "Già, la poesia. Un'altra prova terrificante che bisognava superare e per la quale nei giorni precedenti, a casa e all'asilo, ero stato preparato, non di rado con l'incoraggiamento di qualche scapaccione.
Dovevo recitarla e balbettando, con una vocina che pareva il pigolio di un povero passerotto, cominciavo, supplicando aiuto con gli occhi velati dalle lacrime, a mamma o nonna, quando inciampavo e non riuscivo a andare avanti.
Il Ceppo pareva accontentarsi, ma il martirio non era finito!
Apriva alla fine il sacco e la prima cosa che tirava fuori era infallibilmente un sacchetto di carbone che, altrettanto infallibilmente, mi faceva piegare la bocca all'ingiù e tirare su col naso per tentare di non frignare. Ma quell'uomo, in questa prima fase del suo "show", sembrava fosse stato istruito da un generale della Gestapo e dal sacco usciva un mazzetto di cipolle e poi qualche aglio e alla fine, chissà perché, una pina verde ancora appiccicosa di birichicchero.
E allora, hai voglia a tirare su col naso. Chi le tratteneva più le lacrime!
Ma a questo punto, sia perché anche a mamma, nonna e zia cominciavano a lustrare gli occhi, il Ceppo ridiventava il buon, vecchio Ceppo e dal sacco emergevano i balocchi! Soldatini di piombo, una trottola musicale, un'automobilina di latta con la carica a molla e lo "chauffeur" imberrettato, esiliato all'estremo dell'abitacolo, al freddo e al gelo, mentre "i signori" sedevano comodamente all'interno.
Sindacati e Diritti dei Lavoratori non avevano ancora vece in capitolo!
Il Ceppo se ne andava, per ritornare poco dopo nelle normali sembianze e partecipare alla festa, come se nulla fosse stato. Nonno, finalmente, poteva accavallare le gambe indolenzite, le lacrime si asciugavano in un lampo ed ero già carponi a scaraventare i bersaglieri contro i baffuti austriaci.
Nel sacco c'erano anche i dolciumi, specialmente dei torroncini dispettosi che rimanevano ostinatamente appiccicati, mezzi alla carta e mezzi alle dita. Ma non mi interessavano, come pure facevo poco caso alle 5 lire d'argento, il famoso "Aquilotto" che mio zio sempre mi regalava. Tanto finiva subito nel salva denaro e non lo rivedevo più.
Un Natale particolare, nei miei ricordi di quella notte, fu quello avrò avuto un dodici anni- in cui mi venne regalata la mia prima bicicletta "da uomo". Quando finalmente andai a letto me la portai in camera e l'appoggiai al cassettone. Dormii con un occhio solo. Ogni tanto mi alzavo per toccarla, per dare un'altra lustratina al manubrio cromato dopo averci alitato sopra, per controllare la pompa e per vedere se nella apposita corsettina c'erano gli arnesi necessari: due levette per rimuovere il copertone, un tubetto di mastice per attaccare le toppe alla camera d'aria, una grattugina per raspare la gomma e ottenere maggiore presa. Suonai anche il campanello, svegliando di soprassalto i miei nonni che dormivano nella camera accanto.
La mattina, appena si fece giorno, ero già in Piazza a inanellare giri su giri intorno al Pozzo. Non c'era anima viva. Soltanto lo spazzino che mi guardava, con la scopa a mezz'aria e scuotendo il capo come a dire: "Ma bada questo coglione!" E pedalai più forte e spedito quando, ad un tratto, vidi mia mamma alla finestra che, in camicia da notte, mi covava con occhi un po' preoccupati, un po' compiaciuti.
Con uno stringimento al cuore, mi tornò alla fine alla mente un Natale in cui, al "Ceppo", avrei forse potuto dire "Si, si. Sono stato buono".
Eravamo nel Libano e abitavamo, quell'anno, in una località di villeggiatura in montagna. Mancavano un paio di giorni alla Festa. Eccezionalmente era nevicato molto. Sul finire della cena suonarono alla porta. Era un nostro vicino, un abitante del posto. Un pover'uomo, secco allampanato, malaticcio, con una misera che -come si dice noi- gli sfondava il tetto. Non lavorava o non poteva e sua moglie, poveretta, si dannava l'anima per sfamare cinque bambini.
Elias, si chiamava quest'uomo e spesso veniva a trovarci la sera. Entrò, livido per il freddo, stringendosi attorno al corpo macilento una misera giacchettuccia. Si sedette come al solito vicino alla stufa, con occhi speranzosi che andavano dalla bottiglia del vino sulla tavola al mio pacchetto delle sigarette. Gli offrii da bere e da fumare e si chiaccherò un po' di questo e di quello e, particolarmente, della tanta neve e del tanto freddo.
Ad un certo punto, Elias accavallò le gambe e una pietà infinita mi colpì come un cazzotto. Vidi le sue scarpe. Un paio di scarpucce leggere, logore. Nella suola di quella che aveva sollevato c'era un buco largo come un pugno dal quale spuntava un calzinotto liso e fradicio.
Elias colse il mio sguardo, mi fissò e mormorò: "Fa tanto freddo d'avvero".
Lo interrogai. Seppi che a casa non avevano assolutamente nulla per scaldarsi; per trovare un po' di tepore andavano a letto tutti insieme, lui, la moglie e i cinque bambini. Per cena, quella sera, avevano mangiato soltanto una specie di farinata di ceci.
Mia moglie aveva già agguantato il Panettone che non aveva ancora aperto. Ci aggiunsi un torrone e due bottiglie di vino e gli demmo il tutto. Elias strinse al petto il dono. Non disse una parola, ma una lacrima che gli scendeva lungo la guancia parlò per lui, per tutti i derelitti come lui.
Sull'uscio lo fermai. Corsi a prendere una stufetta elettrica che avevo comprato per avere più caldo nel bagno e gliela infilai tra le braccia, in mezzo alle bottiglie ed al Panettone.
Se ne andò nella neve alta e correva come un bambino. Un bambino senza soldatini di piombo, con una stufetta stratta al petto.
Mia moglie singhiozzava. Le dissi: "Buon Natale". E lo fù.