Le vecchie scampagnate
Tra le cose, usi e costumi che non ci sono più o sono passati di moda come buttando giù a caso- gli impiastri, le giarrettiere, i congiuntivi, i ceffoni ai figli discoli, i mangia-e-beì, le bacchettate dei maestri, ecc. ecc., ci metto anche le merende. Intendiamoci, non quelle che i bambini continuano a fare a base di crostatine, fette biscottate, patatine e succhini di frutta, ma quelle che una volta si usava fare in campagna —e pertanto chiamate anche scampagnate- non appena i prati rinverdivano e il sole, non ancora rincoglionito dagli attuali anticicloni delle Azzorre, faceva il suo mestiere. Ora, semmai, vengono dette "picchenicche", cioè "Pic-nic", tanto per seguire l'andazzo che ha mutato il desinare in colazione e la cena in pranzo. (Cosicché, quando ti invitano, poniamo, "a pranzo" non sai che pesci pigliare ed alla fine, un po' vergognoso e imbarazzato, domandi "A che ora?"). Dunque, dicevo delle merende in campagna, dove erano sovrani pane e salame e fiaschi di vino, con massicci interventi di prosciutto, rigatino, cacio e pere, briciolina e baccelli (a seconda delle stagioni) e, in alcune occasioni, dai fazzolettoni a quadri e dai panieri venivano fuori anche panzanelle, minestre di pane e teglie di coniglio al forno con le patate tagliate a barchetta. Da bambini, facevamo una specie di apprendistato nei dintorni del paese, appena fuori le mura. Il gruppetto di cui facevo parte prediligeva gli "ulivini" del Bigazzino. Le mamme preparavano il fagottino della merenda: pane e salame o pane con la conserva di fichi fatta in casa (la marmellata era quella che si comprava) e una boccettina di vetro giallognolo e schiacciata che normalmente aveva contenuto il Proton o uno sciroppo per la tosse, con acqua e un'ombre di vino rosso. Dopo mangiato i maschi si cimentavano nel gioco di "Guardie e Ladri" oppure a catturare i maggiolini (calasini!) d'ro e di smeraldo, facendoli poi volare, prigionieri perché legati per una zampina con un filo da cucire. Le femmine, invece, o si mettevano a cantare "11 mio bel castello, salutino e salutello" o si davano al loro spasso preferito: Il Gioco del Leone. Mi pare ancora di vederle camminare a occhi chiusi e il naso all'insù salmodiando "A, flà. A, flà": A proposito di giochi ce n'erano di quelli che si reggevano su parole degne di Aladino e la sua lampada. "Ghinè, ghinà, taramazzà er esempio, oppure "toccabellicche la volpe s'impicche" che, tanto per chiarire le idee, continuava con "Toscaronte d'un tedesco" ecc; ecc. Le merende-scampagnate dei grandi, delle famiglie, dei gruppi di amici avevano mete tradizionali. La più gettonata:"Il Boschetto di Piemma", ma anche il pino della cascata. Poggio alla città, Montenidoli. Tutti posti, cioè, accessibilissimi a piedi specie per un popolo che andava a piedi da sempre anche per gli anziani, anche per coloro che dovevano vedersela con un lupinello dispettoso. Giunti sul posto, le donne rendevano la direzione delle operazioni: stendere le tovaglie sull'erba, sistemare i più piccini, trovare possibilmente un tronco di quercia per farci appoggiare il nonno che soffriva il mal di schiena, tirare fuori la roba da mangiare e da bere. Gli uomini si incaricavano di partire il pane —quei bei panoni da un chilo o due, tenuti stretti al petto come fossero neonati. E giù fettone che oggi farebbero inorridire il dietologo più permissivo e con le formiche che subito si arrabattavano per portare via le briciole. E infine, tutti a sedere in circolo. Pian piano la conversazione languiva e moriva, sostituita da mugugni di soddisfazione. Si finiva spesso —oltre che con ciliegie o pere o pesche non di rado raccolte strada facendo, approfittando di temporanee distrazioni dei contadini con spicchi di ciambelline fatto da zia Rosina -che come lo face lei non c'era nessuno! - con tanto di buco nel centro, ottenuto mettendoci un bicchiere capovolto. (Il mi babbo diceva che quei ciambelloni li facevano mangiare ai contadini all'impiccagione, per strozzarli, allorché mancava la corda!). Dopo mangiato e bevuto, ci si sdraiava sull'erba. Gli uomini davano la via a qualche bottone del panciotto e dei pantaloni, le donne allentavano nastri e cinture. I bambini o sonnecchiavano o giocavano sui prati, mente i giovanotti ronzavano intorno alle ragazze, queste sempre sorvegliate, però, da mamme e zie che dormicchiavano con un occhio solo. "Teresa, mi raccomando!"
"Maria, non ti allontanare troppo!", erano le raccomandazioni di rito, ma, alla fine, quei cespugli di ginepro e di ginestre favorirono spesso approcci che si conclusero, un giorno, con un "Si" davanti al Proposto. Le formiche si disputavano gli avanzi del mangiare, insetti vari sfrecciavano tra le foglie nella quiete del meriggio. Si sentiva russare e ci scappava anche un rutto, accolto da scandalizzati -si fa per dire- "Che sudicione!" e dal solito "Al tempo dei romani erano sospiri!" Immancabile c'era quello o quella che intonava una canzone, subito ripresa da tutta la comitiva. Il repertorio era limitato: "Quel mazzolin di fiori", "Sull'Arno d'argento, e giù, giù fino al "Ponte di Bassano" passando magari per "Faccetta Nera" se era il tempo della guerra in Affrica. Ma i raggi del sole già si impigliavano tra i lecci e gli abornielli sulla cresta del Poggio del Comune e le torri di San Gimignano, lontane, si tingevano di quel rosa antico che annuncia il crepuscolo. Era l'ora di tornare a casa. Si ripiegavano le tovaglie, ci si levava di dosso gli ultimi ostinati cuteri, così noi chiamiamo le formiche rosse, e sradicati da terra, con uno strattone, zie e nonni indolenziti, si ripartiva, spesso imbrancandosi con altre comitive. Salite permettendolo, i canti continuavano. Bambini e ragazzi scorrazzavano liberi e sicuri. Il lento andare, semmai, di un carro coi buoi non costituiva certamente un pericolo. Ed eccoci finalmente sotto le nostre mura. Un po' stanchi, un po' aggiolliti da quelle ore di sole, d'aria aperta, di bosco e di prati, ma sereni e contenti per quel poco che avevamo avuto. Già, quel "poco" che se n'è andato insieme alle giarrettiere, ai congiuntivi. Insieme, forse, a tanti di noi.