Una visita al "camposanto"
Scendere lungo quel vialetto fiancheggiato da severi cipressi m'inquieta sempre di più. E così, al Camposanto, ci vado di rado, perché ogni volta mi pare di lasciarci un pezzetto di me, un acconto sul saldo finale che si farà col Bigazzi e la sua lenta Mercedes.
Risalirlo, invece, mi da un certo conforto. Un po' cinico, un po' egoistico, forse. E quei cipressi sembrano meno severi, meno ammonitori. Ne accarezzo il tronco e mi ritrovo la mano appiccicosa di birichicchero. Già, il "birichicchero" è un nome da salvaguardare. Quanto meglio, infatti, suona di resina che sa di plastica, di aggeggi termoindurenti, di Montedison, insomma.
Birichicchero, al contrario, si adatta bene a ciò che è: biondo come l'oro, odoroso, una specie di spiritello allegro, ma anche tanto dispettoso, Prova a strofinarci la manica della giacca o di un golfino e te ne accorgerai!
Vado, dunque, raramente laggiù, al Camposanto che male mi adatto a chiamare cimitero. Per me, cimitero suggerisce un luogo tetro, cieli grigi, piovigginosi e odore dolciastro di crisantemi marci, di moccolaia di candele. E come se non bastasse, c'è pure il cimitero degli elefanti e quello delle automobili sconquassate!
Camposanto, invece, è soltanto di noi cristiani e ci puoi immaginare verdi erbette pettinate dal vento, macchiate qua e là dal bianco delle margherite, dal rosso dei rosolacci e gli Angeli di marmo, ritti sulle tombe, pare che provino le ali per qualche svolazzo.
Cammino lentamente lungo i sepolcri, sulla mia sinistra, e sotto i lumini che pendono dai forni, sulla mia destra e automaticamente leggo le lapidi. "Guarda dov'è il povero Gigi" bisbiglio tra me. "Oh Beppino, Beppino, ti ricordi... Bada Luisa! Ecco perché era tanto che non la vedevo!"
Automaticamente, più rapido di un computer, calcolo l'età dei poveri defunti. Nato il…. Deceduto il….
"Ahi, ahi, questo era più giovane di me e quest'altro ancora di più". Mi rinfrancano un po' le lapidi seguenti una indica novantenni di esistenza e l'altra addirittura novantasei! Dio mio, però, quanti, quanti di coloro che mi furono cari, o amici, o semplici conoscenti, sono qui! Tutti qui.
Mi vien quasi voglia di correre in Paese per vedere se, a parte i turisti tedeschi e giapponesi, c'è rimasto ancora qualcuno di noi! Mi soffermo davanti alla tomba della mia "tata". Cara, buona, devota Paolina! Mi portavi, io bambino di quattro o cinque anni, quasi ogni giorno qui. Tu recitavi un rosario e poi sferruzzavi solerte ed io facevo i balocchi tra le croci.
Ma presto mi veniva a noia. "Si va via" frignucolavo, ma tu volevi finire la soletta "Ora, ora" dicevi. E allora ti chiedevo: "Dove l'ha il capo la tù mamma?
"Costassù" mi rispondevi. E io andavo "costassù" e, per farle dispetto, giù scalcagnate sulla lastra di pietra.
Arrivo alla tomba di famiglia. Prego un po', come so, ma piuttosto chiacchiero con i miei cari, ricordammo ciò che fummo insieme, col rimpianto di ciò che mi dettero e di quello che io avrei dovuto dar loro e non detti.
Mi siedo sul muretto che separa la terra dei morti da quello dove i vivi fan crescere ancora il grano, le viti, gli ulivi.
Dove finisce la lieve valle che degrada verso il broto di Fugnano si eleva una collinetta chiamata "Le Vigne", con un boschetto aggrappato alle sue pendici. Era lì che il mi' nonno faceva il capannino per la caccia agli uccelli e dove mi portava quando ero ancora un bambino di sette, otto anni. Oh, quelle albe, con le torri di San Gimignano che contro il chiarore dell'aurora, apparivano nere e come ritagliate in un grande pannello di cartone. E in attesa del primo tordo mattiniero, nel capanno che sapeva di cipresso e di polvere da sparo, mi raccomandavi -o nonno- di non tirare agli uccellini di bosco, come i Re di Macchia e i Codibugnoli. Perché io, dalla bramosia, avrei sparato, infatti, a tutto quello che volava: dalle farfalle agli aeroplani! Chiacchero con te, nonno. Quanti, quanti tordi e fringuelli sono passati ormai. Anch'io sono nonno ed ho fatto tante, troppe padelle sai.